10/04/2015 5 Minuti di lettura

Due esordi nel segno dell'acquario e dell'amore per il gioco

Hanno recentemente provato l’emozione di un esordio nella massima serie, per loro certamente il miglior modo di cominciare una stagione in modo significativo ed indimenticabile

Hanno recentemente provato l’emozione di un esordio nella massima serie, per loro certamente il miglior modo di cominciare una stagione in modo significativo ed indimenticabile.

Come e quando avete conosciuto il baseball?

Marco Costa (MC): “Iniziai a conoscere questo magnifico sport all'età di nove anni grazie ad un corso che la società di Castelfranco fece nella mia scuola. L'ultimo giorno, l'allenatore Steve, portò due palline Lancer ed io ne vinsi una. Fui più incuriosito da questa strana sfera di cuoio con le cuciture che dall'intero corso, mi iscrissi subito. Giocavo esterno centro e prima base. La cosa forse più curiosa, è che quando giocavo avevo una leggera avversione per gli arbitri, non vorrei approfondire troppo ma più di qualche partita me la sono vista da fuori. Ora cerco di redimermi”.

Andrea Caser (AC): “Io invece ho conosciuto il baseball alle scuole medie, dato che il mio professore di educazione fisica aveva praticato questo sport in gioventù. La mia scuola era l'unica che praticava il baseball in tutto l'Alto Adige. Partecipavamo ai Giochi della Gioventù, ed in un'edizione ricordo che perdemmo in un concentramento contro il Friuli per 4-2. Friuli che poi avrebbe vinto la medaglia d'oro alle finali di Roma. All'epoca giocavo in porta a calcio ed il demone del pallone ebbe il sopravvento, benchè il baseball mi piacesse molto. Quindi continuai con il calcio sino a 19 anni. Durante gli anni dell'università, collaborai con una testata locale, occupandomi di sport. Fu così che mi riavvicinai al mio antico pallino e dopo qualche anno, in cui scrissi di baseball, decisi di praticarlo sul serio. A 23 anni mi tesserai per il Bolzano. Ho giocato dieci anni, vincendo tre Coppe Italia di serie C ed ottenendo una salvezza in serie B. Sono stati anni bellissimi, in cui mi sono innamorato, definitivamente, del nostro meraviglioso sport dove ho trovato amici veri. Giocavo come esterno, non avevo braccio, ma al volo non sbagliavo una palla. Ero un  buon lead-off negli anni migliori, ma non ho mai avuto la soddisfazione di battere un fuoricampo” 

Quali sono le maggiori difficoltà che s'incontrano nell'arbitrare il nostro sport?

MC: “La difficoltà maggiore è affinare una forma di carisma in campo che ti faccia essere un giudice credibile e autorevole. E' complesso, lo so,  ma un giorno spero di arrivarci. Il resto? Si studia sui libri”.

AC: “Un regolamento tecnico di gioco estremamente complesso, in cui l’applicazione delle regole non è affatto facile, afferma Andrea – ed molta discrezionalità nella valutazione delle situazioni di gioco. Bisogna partire dal presupposto che ogni situazione di gioco è sottoposta al giudizio arbitrale, per cui l’arbitro è chiamato a prendere nel corso di un match centinaia di decisioni, che talvolta sono legate ad una questione di centimetri: si può comprendere lo stress psicologico cui è sottoposto l’arbitro, che deve mantenere uno stato di massima allerta per tutta la durata dell’incontro, senza un attimo di tregua”.

Ricordate la vostra prima partita? Cos'è cambiato da allora?

MC: “Arbitrai qualche partita anche prima di avere il tesserino, ma la prima volta da UdG è indimenticabile: non avevo niente addosso che poteva identificarmi come tale, ma mi sentivo già parte di una squadra. Ne sono cambiate di cose.. Ora ho una bella divisa ma le emozioni sono le stesse ogni volta”.

AC: “La mia prima partita è stata una serie C a Bolzano, in cui mi sono trovato ad arbitrare i miei ex-compagni, con tutte le difficoltà che ciò comporta rispetto a dieci anni fa, riscontro maggiore ricerca di professionalità della categoria arbitrale, che cura sempre più la formazione. Sotto il profilo tecnico, mi sembra che nei campionati inferiori il livello di gioco sia calato. Sicuramente il passaggio alle mazze di legno ha modificato la filosofia di gioco, ma nella sua essenza il baseball rimane sempre l'old game, e questo è forse parte del suo fascino”.

In che modo è scattato l'amore per la divisa? Ha cambiato qualcosa nella vostra vita l'arbitraggio?

MC: “Questo, ad essere sincero non me lo ricordo, forse la scusa fu che alla società serviva un arbitro a doppio ruolo e io penso di essere stato la risposta. La passione arrivò dopo, speravo sempre che la partita che sarei andato a giocare fosse scoperta da designazione, così compresi che forse quello che volevo non era giocare ma arbitrare. Per quanto riguarda il cambiamento sulla mia routine, posso dire che è stato sottile, ora come prima le domeniche sono in campo e il lunedì a continuare la mia vita, magari sono cambiati gli obiettivi, spero però che in un futuro non troppo lontano me la possa cambiare”

AC: “La ragione principale è stata quella di rimanere comunque nell’ambiente una volta terminata la mia carriera di giocatore, e devo ammettere che il passaggio dall’una all’altra dimensione è stato assolutamente indolore, anzi, ho ravvisato diverse analogie tra i due ruoli: allo stesso modo di un giocatore, infatti, l’arbitro deve essere preparato fisicamente e psicologicamente; deve essere in grado di anticipare mentalmente quello che sarà lo svolgimento del gioco, in maniera tale da poter reagire prontamente alle diverse situazioni; deve applicare gli schemi della meccanica arbitrale per garantire la migliore copertura delle varie zone del campo; deve avere la capacità di fare squadra con i propri colleghi, così da poter svolgere un buon lavoro di equipe. Sul piano personale arbitrare ha affinato le mie capacità di interagire con le persone, di gestire i conflitti e di prendere decisioni. Non nego che trasferisco molte di queste qualità anche nell'ambito professionale”.

Recentemente avete esordito in Ibl. Quali sensazioni ed emozioni vi sono rimaste dentro?

MC: “Gioia perchè alla fine è sempre un traguardo”.

AC: “E’  stato bello condividere questo momento con due colleghi quali Michele De Notta e Marco Costa, con cui abbiamo già vissuto esperienze di arbitraggio in comune. Ero emozionato, poi la rapidità del gioco mi ha subito coinvolto e quindi ho dedicato tutte le mie energie a reagire al meglio ad ogni situazione. Prima di ogni azione ripetevo come un mantra quello che avrei dovuto fare a seconda a seconda del tipo di battuta, così da essere pronto ad applicare la meccanica arbitrale al meglio. Ho percepito comunque nell'aria una diversa tensione rispetto ad un match di serie A federale, soprattutto in occasione di un paio di arrivi stretti in prima base. Alla fine mi rimane la consapevolezza di aver passato una bella giornata di sport insieme a due amici”.

Perchè consigliereste ad un amico di fare l'arbitro, o perchè no?

MC: “Lo consiglierei ad un'amica ce ne sono troppo poche di donne qui da noi. Però a patto che non lo prendi come un passatempo da svolgere un mese all'anno a settimane alterne, non sarebbe giusto in primis per i giocatori che si allenano tutti i giorni, poi per le società che pagano per un servizio ed infine per chi si è impegnato a formarti. Non siamo professionisti, ma ciò non toglie che non dobbiamo essere professionali. Gli direi che è la stessa emozione che provi a girare un gran slam, con l'unica differenza che noi ci stiamo nove inning "sul box". D'altronde è l'unico sport dove l'arbitro non ferma il gioco ma fa il gioco!”

AC: “Arbitrare rappresenta una scuola di vita, ti insegna a superare le difficoltà, a fare sacrifici per migliorare, a prendere decisioni e ad assumertene le responsabilità, a controllare la propria emotività. E poi è un modo per continuare a fare sport sia pure in un ruolo diverso. Io posso solo raccomandare ad un amico di fare l'arbitro, l'unica condizione è quella di avere la capacità di mettersi in gioco e di essere umile, mettendo in conto che si è inevitabilmente condannati a sbagliare”.

Quali sono le vostre aspettative riguardo alla carriera arbitrale?

MC: “La mia paura più grande è un giorno entrare in campo e non provare più le stesse emozioni della prima volta, la mia speranza più viva è non "arrivare mai", superato questo, il dove mi porterà il futuro, dipende da quanto vorrò mettere io sul piatto”.

AC: “Come da giocatore volevo raggiungere il livello più alto possibile di gioco, così come arbitro mi prefiggo lo stesso obiettivo non voglio però dimenticare la dimensione di divertimento che deve caratterizzare l'essere arbitri in Italia. Finchè non mi peserà affrontare lunghe trasferte e stare su un campo, affrontando contestazioni ed insulti, vorrei continuare a farlo”.

Avete un sogno nel cassetto da realizzare?

MC: “Fare della mia passione un lavoro magari proprio in Italia. Un altro sogno, ancora più strano, sarebbe svegliarmi la mattina ed aprire un quotidiano che parli di baseball, poi la sera andare ad arbitrare e trovare lo stadio pieno di gente”.

AC: “Arbitrare alle Olimpiadi? Forse esagero un po'. Ma tanto, sognare non costa nulla”.